Lavori 1980-1996

Oltrepassati i confini della notte, anche l’ombra si alza in tutta la sua luttuosa evidenza. Il linguaggio tenta, allora, vanamente di sfondare quella barriera che l’accompagna e segna il delirio disperante di una sua regressione alla gestualità originaria, allo sprofonamento di una materia che insegue le sue perdute radici. Ma l’arte non chiede ritorni mitici, bensì attesta, miticamente, una sua presenza eccentrica nel mondo di cui ne ascolta l’assoluto rinfranto. L’irripetibilità dell’atto proprio, segnato una volta per tutte, induce l’artista a non porre freni alla vertigine di una espressività che tocca le più inesplorate latitudini, l’enfasi e il silenzio, ma essi rimangono trofei di una purezza ugualmente vinta. Veneri dichiara quella perdita smarrendosi nelle ossessioni e nelle frenesie dell’io, spostando la sua logica oltre le frontiere del senso. Nel tragitto dell’opera il suo lavoro esalta un vuoto incolmabile e perciò l’artista viene viene a sospendere nell’incongruenza vitale del proprio atto il rumore disordinato del quotidiano. Quasi a seguire un corso infrenabile ma ciclicamente rinvenuto, l’artista giunge allora a riconoscere ogni volta la sfida che porta sui territori del linguaggio, sui limiti invalicabili del senso e quindi azzarda un gesto propiziatore, atto profetico che disvela le metafore della vita e della morte, del dicibile e dell’indicibile. Egli intensifica tutte le energie del proprio gesto, nel tragitto combattuto tra razionale e irrazionale, e si confronta su quel orizzonte in bilico tra effettualità ineffettualità, ancoraggio ultimo dello scorrimento dell’Arte.

Sul catalogo della mostra collettiva “Fondazione dell’Opera Bevilacqua La Masa” giugno 1982

Veneri elabora, o rielabora, materiali diversi insieme ai colori, e le sue superfici sono fisicità indiscrete, spesse, non omogenee ma in aggiunta e in crescita. La sua azione e la sua poetica agiscono (e credono) nelle cose, alla salute dell’oggetto inquito e magari simulatore d’altri spazi possibili domani. Il quadro infatti agisce fisicamente come corpo proiettato nello spazio, al fine altre sì di correggere e di ampliare le sue finalità meramente oppositive all’occhio, alle convenzioni estetiche invece che sociologiche. Sul fondo da appendere interviene l’impasto della cartapesta creando rughe e percorsi disarmonizzati a vantaggio del girovagare del colore quasi seminato, e che determina altre azioni, altre vicende, altre intenzioni.
Il colore, insieme alla pittura dell’insieme, può saturare il dipingere in sé per sé, ma non l’inedita presenza psichica della reazione conclusiva. Peraltro rimasta aperta, forse in attesa. Sento uno speciale non-adeguamento che vuole ben di più che uscire dal supporto del quadro come una o più punte. Veneri esercita delle indicazioni disarmoniche in bilico ideologia e diario solitario e chiuso a tutti. La pittura distribuisce tracce, utili rilievi, che collegano la sua cronaca operativa, che mostrano una artisticità precaria proprio perché indispensabile come interiore secchezza eccedente l’individuale.
Testo scritto da A. Monzambani in occasione della mostra “Verona: permanenze della pittura” Agorà aprile maggio 1988

Lavori 1985-1988

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