Lavori 1997-2006

IL BELLO E LA BESTIA
L’anima bella e quella nera di Giancarlo Veneri convivono in questo gruppo di opere, i nuovi lavori che l’autore ha scelto di presentare nello spazio dell’Arsenale. Il cuore spaccato a metà è il primo e più significativo simbolo di questa dicotomia che attraversa il suo animo. Un animo diviso simbolicamente da una vecchia trave rinsecchita, tirata fuori da chissà quale tetto nel quale se ne stava molto più comodamente fino ad ora. I tre cuori sono spezzati, cuoio nero che si spella, arido, da una parte, macchie di gioia dall’altra. Ma più che un’anima cattiva per Veneri si potrebbe tutt’al più ipotizzare un’anima burbera, un po’ ringhiosa al massimo, ma can che abbaia, si sa, non morde. I suoi occhi tradiscono inevitabilmente l’anima buona che sembra lui voglia quasi un po’ celare, ma è inutile che ce la racconti, la mostra parla chiaro. Non ci fa paura, neanche per le spine dei cactus, che hanno anche dei bellissimi fiori, come le rose. E quei cactus squarciati da vecchi legni che sembrano vivi, parlano di una sofferenza nel cuore che nutre quelle spine acuminate, addolcite dal colore con cui Veneri interviene. Ci fa sorridere piuttosto perché ci porta dentro quella creatività ironica, dolce e beffarda insieme che da sempre gli appartiene, quella creatività che anche quando vuol dire contro qualcosa, in realtà dice pro, offre già un’alternativa migliore rispetto alla realtà che vorrebbe cercare di cancellare.
È così anche per la serie delle lance. Aggressive nella forma acuminata, perdono la loro carica negativa proponendosi come un gioioso baluardo di pace. Sono le armi della cultura contro quelle degli odi che conducono alle guerre, in fondo tanto spesso coltivate al concime dell’ignoranza, dell’incomprensione, dell’incapacità di costruire un rapporto dialettico. Sono le lance che Veneri vorrebbe scagliare in mezzo alle centinaia di campi di combattimento sparsi per il mondo, sperando che abbiano il potere di fermare i soldati, di opporsi alle altre armi, quelle che feriscono e uccidono. Dice che ne ha fatte un sacco Veneri di lance, ma poi non ne era mai soddisfatto. Alla fine ciò che è uscito è ancora un connubio tra anima nera e anima bella, tra guerra e pace, tra aggressività e conciliazione, tra punte acuminate e colori solari.

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Lavori 1980-1996

Oltrepassati i confini della notte, anche l’ombra si alza in tutta la sua luttuosa evidenza. Il linguaggio tenta, allora, vanamente di sfondare quella barriera che l’accompagna e segna il delirio disperante di una sua regressione alla gestualità originaria, allo sprofonamento di una materia che insegue le sue perdute radici. Ma l’arte non chiede ritorni mitici, bensì attesta, miticamente, una sua presenza eccentrica nel mondo di cui ne ascolta l’assoluto rinfranto. L’irripetibilità dell’atto proprio, segnato una volta per tutte, induce l’artista a non porre freni alla vertigine di una espressività che tocca le più inesplorate latitudini, l’enfasi e il silenzio, ma essi rimangono trofei di una purezza ugualmente vinta. Veneri dichiara quella perdita smarrendosi nelle ossessioni e nelle frenesie dell’io, spostando la sua logica oltre le frontiere del senso. Nel tragitto dell’opera il suo lavoro esalta un vuoto incolmabile e perciò l’artista viene viene a sospendere nell’incongruenza vitale del proprio atto il rumore disordinato del quotidiano. Quasi a seguire un corso infrenabile ma ciclicamente rinvenuto, l’artista giunge allora a riconoscere ogni volta la sfida che porta sui territori del linguaggio, sui limiti invalicabili del senso e quindi azzarda un gesto propiziatore, atto profetico che disvela le metafore della vita e della morte, del dicibile e dell’indicibile. Egli intensifica tutte le energie del proprio gesto, nel tragitto combattuto tra razionale e irrazionale, e si confronta su quel orizzonte in bilico tra effettualità ineffettualità, ancoraggio ultimo dello scorrimento dell’Arte.

Sul catalogo della mostra collettiva “Fondazione dell’Opera Bevilacqua La Masa” giugno 1982

Veneri elabora, o rielabora, materiali diversi insieme ai colori, e le sue superfici sono fisicità indiscrete, spesse, non omogenee ma in aggiunta e in crescita. La sua azione e la sua poetica agiscono (e credono) nelle cose, alla salute dell’oggetto inquito e magari simulatore d’altri spazi possibili domani. Il quadro infatti agisce fisicamente come corpo proiettato nello spazio, al fine altre sì di correggere e di ampliare le sue finalità meramente oppositive all’occhio, alle convenzioni estetiche invece che sociologiche. Sul fondo da appendere interviene l’impasto della cartapesta creando rughe e percorsi disarmonizzati a vantaggio del girovagare del colore quasi seminato, e che determina altre azioni, altre vicende, altre intenzioni.
Il colore, insieme alla pittura dell’insieme, può saturare il dipingere in sé per sé, ma non l’inedita presenza psichica della reazione conclusiva. Peraltro rimasta aperta, forse in attesa. Sento uno speciale non-adeguamento che vuole ben di più che uscire dal supporto del quadro come una o più punte. Veneri esercita delle indicazioni disarmoniche in bilico ideologia e diario solitario e chiuso a tutti. La pittura distribuisce tracce, utili rilievi, che collegano la sua cronaca operativa, che mostrano una artisticità precaria proprio perché indispensabile come interiore secchezza eccedente l’individuale.
Testo scritto da A. Monzambani in occasione della mostra “Verona: permanenze della pittura” Agorà aprile maggio 1988

Lavori 1985-1988

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Lavori 1977-1980

Trenta tele (o supporti di altro genere) tutte della stessa dimensione e senza cornici, sono appese allineate.
Su ogni tela il profilo stilizzato di un albero è ripetuto in maniera meccanica, proprio una sagoma precostituita, con pochi altri elementi fissi… ….una linea d’orizzonte passa … sulla chioma dell’albero, tagliandola a metà.
L’albero è un puro pretesto.
Veneri ha fatto una puntigliosa e felicemente riuscita ricerca del banale.
E su banalissimi significanti è intervenuto, uno al giorno, giorno dopo giorno, a depositare, con i termini di un suo idioletto, di un suo privatissimo codice (colori, tasselli di legno, lettere stampigliate con cura o frettolosamente tracciate a mano, grafemi di ogni sorta e fotografie), una traccia emozionale del suo esistere, a registrare, in  una successione temporale che il metronomo dei trenta giorni scandisce, il suo rapporto profondo, psicologico tra il suo vivere quotidiano ed il mondo.
Ecco nascere un inquietante contrasto tra elementi d’ordine (la sagoma, i supporti uguali, il ritmo d’esposizione) e di disordine (gli interventi giornalieri, cioè il linguaggio in immagini della psiche dell’artista).
Perché ha scelto l’albero?… l’artista asserisce d’averlo scelto perchè il più banalizzabile.
…Ma di grande interesse è l’opera di banalizzazione, intento assolutamente opposto a quelli di tutta l’opera del passato.
Gli interventi sulla silhouette dell’albero sono di una voluta povertà, studiatamente infantili. Il gioco è affascinante; l’uomo di oggi, disincantato, che si propone, spogliatosi di ogni inghippo culturale, di vedere le cose con l’anima del bimbo, con avida curiosità (….). Non poteva farci intendere in modo migliore e più efficace che il contenuto intellettuale della mostra è assai più importante di qualsiasi messaggio che i nostri sensi possano percepire. Non c’è alcuna formulazione di propositi artistici.

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05-5 mercoledì28 venerdì

1968-1972 Performances Happening

 La “mostra-avvenimento” di Carlo Veneri pur presentandosi modesta rispetto  ad altre iniziative del genere come quantità e varietà di “materiali” e “procedimenti”, ci è parsa interessante – nel suo contenuto di ambiguità – per gli aspetti psicologici e talora metafisici cui fa riferimento.

Diciamo subito che non si tratta di “quadri”, né di oggetti che sia possibile vendere, consistendo – i lavori esposti – in minuscoli specchi d’acqua nei quali s’alzano pietre, pietruzze, sabbia, mucchietti di colore. Il procedimento, perché risulti vivo, deve essere vissuto dal pubblico nel momento in cui si attua; cioè il pubblico dovrebbe partecipare all’opera, anche con suggerimenti o esclamazioni, in una parola in modo attivo. Allora avviene – così affermano i profeti di codeste tecniche – un processo catartico, non solo dell’operatore, ma anche in che partecipi all’esperienza.

Quel che conta, in sé, non è la composizione finita, perciò, ma l’azione: l’atto puro, splendente di se stesso, slegato da qualsiasi motivazione, lucido. Atto che può introdurre (quando sia una particolare predisposizione in colui che lo pratica o in coloro che lo seguono) a uno stato di “chiarità” interiore, una sorta di trascendimento.

Qualche visitatore ieri annotava che si trattava di un “pasticciare da bambini”, e lo diceva rammaricandosi di non capire di più, senza accorgersi che nel dire quello aveva già i dati per capire a sufficienza. Si tratta, infatti, di azioni immotivate che si possono assimilare per la loro semplicità ad un gioco di bambini, ed è in tale caratteristica che si può reperire il “senso” che le ha determinate. Un senso di ribellione, di contestazione, ma non si contesta la pittura, semmai il mondo  La realtà fisica e la relativa coscienza che ci lega ad essa…

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Happening “La barca” del 20 dicembre 1969

1967-1968 Dalla Pop all’Arte Povera

“L’arte come esperienza comunitaria per l’affermazione dell’essere”

La premessa necessaria a introdurre lavori come quelli di Veneri sembra dover essere un azzeramento mentale, un togliere, se volete, più che un aggiungere: se l’arte può ancora venir considerata in termini sociologici come una sovrastruttura (ne parla così anche il movimento studentesco ma si tratta di un’analisi ormai stantia), in termini operativi essa viene avvertita da Veneri e compagni come un’incrostazione, stratificazione intellettuale di una geologia psichica che vuole invece sovvertirsi completamente. E la rottura avviene lungo la sua verticale.

Veneri lavora fuori dalla logica evolutiva dell’arte. E’ il punto primo, mi pare, perché si tratta, per cominciare, di svincolarsi da ogni meccanica intellettuale di tipo integrato. Eliminato il mito della frontiera, i clichès dell’avvanguardismo, la tensione dell’operazione di punta, l’inevitabile gioco delle barriere, in cui ogni volta superi una barriera e ne incontri un’altra. In altre parole, la volontà di Veneri di radicale reazione ai condizionamenti dell’ambiente, alle pressioni-repressioni di Verona è altrettanto importante, se non di più, del problema di rivaleggiare con gli artisti di New York, mettiamo; la linea della “sua” ricerca c’interessa più delle linee della ricerca, insomma. E la sua sostanziale affinità con il lavoro dell’amico Bonfà. Dei giovani di Torino e di Roma, lo pone all’interno di una cultura che si fa , qui e adesso.

Veneri lavora sul diverso e il separato. Questa è una tattica comune alla maggior parte delle attuali operazioni: rompere il discorso e con esso l’uniforme linguistica che il mercato strumentalizza in funzione di codice; aprirsi a un operare non mediato, con atti separati e contingenti; se l’arte è ancora separata dalla vita, divisa tra teoria e prassi, l’artista ne assume coscienza piena fino a farne un linguaggio: immediatezza e separatezza sono la reale struttura linguistica di queste ricerche, ben oltre la coerenza di stile e la responsabilità formale.

Veneri, infine, combina oggettività e ricettività. Ora si dice che lavorano sui nuovi materiali, questi artisti “poveri” e anti-tecnologici, mentre gli artisti pop e novo-realisti lavorano sulle nuove immagini, e i minimalisti sulle nuove strutture; e sia, purchè sia dichiarata in modo inconfondibile questa differenza: che adesso si tenta d’instaurare un rapporto alla pari e non violento con il mondo.

Nel pensiero occidentale il dialogo con la natura è tuttora improntato a soggettività, non c’è da illudersi; ma ora vuole essere per lo meno un dialogo in cui la natura, la materia, non siano più represse e violentate.

Così Veneri e compagni s’aprono ogni giorno a percezioni fresche, s’impossessano dei materiali più semplici in modo oggettivo (la rete si piega e filtra, i truccioli si espandono, il cotonaccio si arrotola e la spugna assorbe), ma non si limitano a registrare solo i procedimenti operativi, esercitano piuttosto una pratica ricettiva, liberatoria se non ancora libera.

Testo di Tommaso Trini da 1 quaderno gall. Ferrari personale ottobre 1968

1965-1966 Dall’Accademia alla Pop

Veronesi svegliatevi, uscite dai vostri lupanari, rinnovate le vostre energie embolizzate dalle eterne latebre del vostro cervello embolizzato di acme premente per erotici pasti inconsumati!

Leggete l’indicatore pluridirezionale di Veneri e vi vedrete il raptus morganico dei vostri sogni obnurati dall’oggetto-indicazione, che vi seduce e che vi si impone come guida in ogni luogo turistico, in ogni snack- bar, in ogni grill, in ogni esposizione di mobili, in ogni direzione di luogo e di strada “…..” e voi seguite la lunga mano senza rendervene conto come automi, come fessi, come ;;;; quello che siete.

La moderna icona dell’indice puntato vi opprime, vi induce, vi costringe – Non potete più permettervi di desiderare un cesso a vostro piacimento! – LA LUNGA GRANDE MANO VI GUIDA –

E Veneri sensibile a queste richieste ne ha fatto un mito, un cartellone, un manifesto, ingigantendola, capovolgendola, nel paradossp del mobile, i magnificati iniziali del contenuto, scusate volevo dire contesto.

Ma non basta, Veneri vi lascia lavorare, vi fa lavorare, non vi da l’esito bello e fatto dell’opera, sia essa un paesaggio con alberello, siepe e nuvola, bello di un colore bello come quello che vi piace adorare nei circhi, nei luna park, nei film americani, stupidi quanto sfacciati, esilaranti quanto luminose masturbazioni di pubblicità al neon che vi attira, vi turba nella notte, vi pesa sulla retina come immagine cinetica e vi convince vi fa piacere, vi fa gioire di quella gioia che vi da la libido delle cambiali da galopparci dietro, da inseguire, da scontare, e la vostra vita è questa primavere, che si dispiega nel campo da tennis!

– Sai Giangi ho sputato tanta biava da gettonavmi tve coche e svitavmi un Tom –

E a questa primavera fatta di colori stupidi come quelli dei fiori, di profumi stupidi come quelli dell’erba o degli ebrei usciti dal crematorio o allucinanti nevrotici come quelli delle concimaie fumanti alla brezza dell’alba o delle musiche yè-yè e altre boiate del genere, che fanno clima, riferimento, a questa primavera in scatola che deborda e vuole esplodere egli vi invita.

E in questa bella primavera, dove finalmentele grane sono guerre, vi immerge il suo esposto, forse, vorrei dire, fa di più perché in questa extra spazialità plastica, che oltrepassa la piatta indimensionalità del quadretto tradizionale, vi circonda di mostri (cosa straordinaria da vedere) e vi invita ad avere parte nella creazione, componendo, disponendo, scomponendo.

Prendetevelo quel “Giorgio Medail” che occhieggia nel cubo col suo profilo sfavillante, col suo ochhio spermatozoico e distribuitelo come volete! Fatevelo vostro con un vostro intervento diretto finalmente!

AH! E sia questa la volta buona per svegliarsi dal sonno dogmatico.

Testo scritto da E.M. Caserta in occasione della personale del marzo 1967 alla galleria “Studio N 66”