“L’arte come esperienza comunitaria per l’affermazione dell’essere”
La premessa necessaria a introdurre lavori come quelli di Veneri sembra dover essere un azzeramento mentale, un togliere, se volete, più che un aggiungere: se l’arte può ancora venir considerata in termini sociologici come una sovrastruttura (ne parla così anche il movimento studentesco ma si tratta di un’analisi ormai stantia), in termini operativi essa viene avvertita da Veneri e compagni come un’incrostazione, stratificazione intellettuale di una geologia psichica che vuole invece sovvertirsi completamente. E la rottura avviene lungo la sua verticale.
Veneri lavora fuori dalla logica evolutiva dell’arte. E’ il punto primo, mi pare, perché si tratta, per cominciare, di svincolarsi da ogni meccanica intellettuale di tipo integrato. Eliminato il mito della frontiera, i clichès dell’avvanguardismo, la tensione dell’operazione di punta, l’inevitabile gioco delle barriere, in cui ogni volta superi una barriera e ne incontri un’altra. In altre parole, la volontà di Veneri di radicale reazione ai condizionamenti dell’ambiente, alle pressioni-repressioni di Verona è altrettanto importante, se non di più, del problema di rivaleggiare con gli artisti di New York, mettiamo; la linea della “sua” ricerca c’interessa più delle linee della ricerca, insomma. E la sua sostanziale affinità con il lavoro dell’amico Bonfà. Dei giovani di Torino e di Roma, lo pone all’interno di una cultura che si fa , qui e adesso.
Veneri lavora sul diverso e il separato. Questa è una tattica comune alla maggior parte delle attuali operazioni: rompere il discorso e con esso l’uniforme linguistica che il mercato strumentalizza in funzione di codice; aprirsi a un operare non mediato, con atti separati e contingenti; se l’arte è ancora separata dalla vita, divisa tra teoria e prassi, l’artista ne assume coscienza piena fino a farne un linguaggio: immediatezza e separatezza sono la reale struttura linguistica di queste ricerche, ben oltre la coerenza di stile e la responsabilità formale.
Veneri, infine, combina oggettività e ricettività. Ora si dice che lavorano sui nuovi materiali, questi artisti “poveri” e anti-tecnologici, mentre gli artisti pop e novo-realisti lavorano sulle nuove immagini, e i minimalisti sulle nuove strutture; e sia, purchè sia dichiarata in modo inconfondibile questa differenza: che adesso si tenta d’instaurare un rapporto alla pari e non violento con il mondo.
Nel pensiero occidentale il dialogo con la natura è tuttora improntato a soggettività, non c’è da illudersi; ma ora vuole essere per lo meno un dialogo in cui la natura, la materia, non siano più represse e violentate.
Così Veneri e compagni s’aprono ogni giorno a percezioni fresche, s’impossessano dei materiali più semplici in modo oggettivo (la rete si piega e filtra, i truccioli si espandono, il cotonaccio si arrotola e la spugna assorbe), ma non si limitano a registrare solo i procedimenti operativi, esercitano piuttosto una pratica ricettiva, liberatoria se non ancora libera.
Testo di Tommaso Trini da 1 quaderno gall. Ferrari personale ottobre 1968